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United Colors of Alessandro Benetton

Alessandro Benetton studia il rilancio dell’azienda

Come primo atto del suo regno, ha strappato i manifesti di papà. Era dai tempi di Oliviero Toscani che la regola dei Benetton era ferrea: “Abiti colorati e fondale bianco”. Ma fra pochi giorni questa tradizione finirà. Sui cartelloni “United Colors”, i modelli multietnici taglieranno la tela bianca come Lucio Fontana e, da dietro, riapparirà il coloro: “E’ la rivoluzione voluta da Alessandro Benetton, significa una cosa chiara: si volta pagina”, raccontano al quartier generale di Ponzano Veneto. “Per noi è come togliere la tonaca bianca al papa. Stiamo cambiando”. E in effetti le cose si muovono in fretta, da quando, il 21 aprile, in sella al colosso mondiale in crisi di vendite in Europa e negli Stati Uniti è salito Alessandro Benetton, figlio del fondatore Luciano, e scelto dai vecchi di famiglia per guidare la prossima generazione. Dai trevigiani il giovane Benetton due cose le ha prese: l’accento cantilenante e l’etica del lavoro. E, in questo, è tutto Luciano, raccontano i suoi amici: “Anche se Alessandro non è uno cresciuto a pane e maglioni colorati da zia Giuliana come suo padre, ha sempre avuto il pallino dell’indipendenza. È metodico, sistematico, instancabile”. Laurea a Boston, master ad Harvard, passaggio alla Goldman Sachs (“Quando non era di moda andarci né era così famosa”, precisa sempre a chi glielo ricorda), da giovanissimo s’è messo in proprio e s’è inventato la “21 Investimenti”, un fondo che finanzia aziende in crisi. Pericoloso, ma lui è appassionato di sport estremi, dallo sci all’alpinismo al kytesurf. A 48 anni vive di adrenalina, proprio come ai tempi della Formula 1, quando Schumi trionfava su Renault-Benetton e lui veniva immortalato a bordo pista al fianco di Briatore. La sua giornata tipo in azienda è da astronauta in missione: sveglia alle 6:30. In ufficio prima delle 8, circa 50 telefonate già programmate e una trentina di meeting, magari di pochi minuti. Odia le riunioni plenarie: “Non si decide nulla”, ripete fra una mail e un sms. Se lo chiami rampollo, poi, s’infuria. E un po’ s’è arrabbiato pure qualche giorno fa, quando ha saputo che, rinchiuso ad Arcore, Silvio Berlusconi stava facendo il suo nome in giro. Chiamava qua e chiamava là, il Cavaliere, alla ricerca di una “faccia pulita” alla Benetton, da lanciare in politica per far dimenticare alla svelta le nottate con Ruby, crisi economiche e quid mancanti di Angelino Alfano. E l’identikit di Alessandro Benetton era perfetto. “E’ pure sposato con l’ex campionessa di sci, Deborah Compagnoni” ripetevano nel Pdl. “Tre figli e un marchio famoso in tutto il mondo”. Così a Roma era girata la voce di un altro Benetton in campo, qualcosa di più dei due anni da senatore di papà. “Ma dove diavolo troverei il tempo?”, ha risposto incredulo lui a un suo collaboratore. Lusingato, certo. Ma tutto qui. Poi, a scanso di equivoci, ha dettato pure una smentita: “Pur ringraziando chi possa aver pensato a lui”, scrive rivolto a Silvio, al quale lo lega un’amicizia – da queste parti dicono sincera – con la figlia Marina e con Fininvest. Chiusa la parentesi boatos, Alessandro Benetton si occupa della grande più grossa che ha: il marchio è mondiale, le campagne choc funzionano e, con il bacio di Obama e di Papa Benedetto, hanno toccato mezzo miliardo di persone. Quello che non funziona più sono i 6.5000 negozi sparsi in 120 paesi del mondo. Per ora ne hanno rinnovati un quarto, ma la crisi si sente. Stile vecchio, troppo cari quei maglioni per reggere l’urto con marchi usa e getta come Zara o H&M. E non serve ripetere che è “roba di qualità, che dura nel tempo”. Basta guardare cosa gli è toccato fare negli Stati Uniti. “Due passi indietro per farne uno in avanti”, ripete Alessandro. “Benetton aveva 900 punti negli anni Novanta, oggi sono 40. Si deve ricominciare con un’immagine nuova, e lui ci prova: vetrine animate e prodotti pensati per i “millennials”, il suo pallino, ventenni ritenuti cruciali da tutti gli studi sui consumi di domani. Per l’Italia poi si tratta di colmare un gap generazionale. Chi ha cinquanta o sessant’anni era nato in un Paese stile Benetton, i figli ne avevano parlare, ma già guardavano altrove, mentre i nipotini di oggi conoscono il marchio ma non si vestono da Benetton. Ecco che la sfida tricolore del Gruppo. Combattere i marchi low cost che aprono i mega store nei centri storici di Roma e Milano, rilanciando i negozi sparsi in provincia. Secondo la regola di Alessandro Benetton che recita così: “Il mondo globale segue le macro tendenze, ma ci sono anche le chimiche locali, ovvero l’importanza di conoscere personalmente i propri clienti. E su questo siamo i primi al mondo”. Per fare il salto di qualità, si è affidato a un vietnamita. Nelle sue peripezie lungo il globo ha incrociato You Nguyen e se l’è portato nella Marca: “Mi ha chiesto di cambiare la filosofia dei negozi: non importa quanti sono, ma quanto resta impresso ciò che vendono. Così io progetto i vestiti immaginandoli già sui loro scaffali”, racconta lo stilista-manager nella nuova show room. Studio fotografico, salone per le sfilate, archivio storico. Il tutto avvolto da un odore acre: “Non è niente”, spiega You, “abbiamo tagliato qualche quintale di cipolle. Sa, i modelli devono piangere..vedrà che foto usciranno da quella stanza”. Anche perché la sfida è grossa. E vale anche per gli altri marchi del gruppo. Da Playlife (“La fotocopia del guardaroba ideale di Alessandro”, ripetono tutti) fino alla Sisley. Qui a Treviso i Benetton saranno anche “uniti” come recita il loro slogan, ma a sentire che li conosce non è tutto rose e fiori. Luciano e Gilberto non sarebbero più quelli dell’infanzia e in giro assieme nessuno li vede più. Uno legato alla lana e l’altro agli Autogrill. Con le cifre che parlano chiaro: l’abbigliamento fa 2 miliardi di euro, mentre Autogrill nel 2011 sfiorava i 6 miliardi. Per Alessandro Benetton gira meglio in India, dove ha già 400 negozi e, dai sondaggi, Benetton è il brand più conosciuto del Paese, secondo forse solo a madre Teresa. Chi ha un gruzzolo dalle parti di Bombay, apre Benetton come si faceva in Italia vent’anni fa. Pure due tizi, che si sono presentati all’incontro in moto con due scimmie a bordo. Sulle prime i manager veneti hanno strabuzzato gli occhi, poi i due signori hanno esibito, fra i sorrisi dei primati, la fideiussione da mezzo milione di euro, e chiuso l’affare. Così lui è tornato a casa a Treviso: “Potrei vivere solo qui”, dice a tutti. Anche se villa Minelli sembra un pianeta alieno. Fuori c’è la Lega, si parla dialetto e il verde è quello padano. Dentro la fabbrica tutti parlano inglese, incroci borsisti da mezzo monzo e per due anni sono stati i Benetton a concedere gratis il Palaverde ai musulmani per il ramadan, visto che il duo Gobbo – Gentilini negava strutture e contributi. La coppia Benetton – Compagnoni fa una vita normale: “Coltivano l’orto dietro casa, vanno al supermercato, quello biologico, a fare la spesa e al mattino a scuola con Agnese, Tobias e Luce”, confermano tutti. E Alessandro Benetton ha pure un sogno inconfessabile nel cassetto: battere Deborah nello slalom gigante. “Ci sta riuscendo. Ha preso pure il patentino di allenatore federale di sci, primo contro due ex campioni del mondo. Potrebbe allenare la Nazionale”. Leggende o realtà? Come quando la coppia d’oro, figlioletti al seguito, si è sentita dire che al cinema non c’era più posto: “Alessandro è tornato a casa senza dire niente. E pensi, quel cinema è dei Benetton.

FONTE: L’Espresso

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